Recensione: “Mille splendidi soli” di K. Hosseini

Titolo: Mille splendidi soli

Autore:  Khaled Hosseini

Pagine: 408

Prezzo: Cartaceo €8,92 – Ebook €7,99

Trama:

A quindici anni, Mariam non è mai stata a Herat. Dalla sua “kolba” di legno in cima alla collina, osserva i minareti in lontananza e attende con ansia l’arrivo del giovedì, il giorno in cui il padre le fa visita e le parla di poeti e giardini meravigliosi, di razzi che atterrano sulla luna e dei film che proietta nel suo cinema. Mariam vorrebbe avere le ali per raggiungere la casa del padre, dove lui non la porterà mai perché Mariam è una “harami”, una bastarda, e sarebbe un’umiliazione per le sue tre mogli e i dieci figli legittimi ospitarla sotto lo stesso tetto. Vorrebbe anche andare a scuola, ma sarebbe inutile, le dice sua madre, come lucidare una sputacchiera.

L’unica cosa che deve imparare è la sopportazione. Laila è nata a Kabul la notte della rivoluzione, nell’aprile del 1978. Aveva solo due anni quando i suoi fratelli si sono arruolati nella jihad. Per questo, il giorno del loro funerale, le è difficile piangere. Per Laila, il vero fratello è Tariq, il bambino dei vicini, che ha perso una gamba su una mina antiuomo ma sa difenderla dai dispetti dei coetanei; il compagno di giochi che le insegna le parolacce in pashtu e ogni sera le dà la buonanotte con segnali luminosi dalla finestra. Mariam e Laila non potrebbero essere più diverse, ma la guerra le farà incontrare in modo imprevedibile.

Dall’intreccio di due destini, una storia che ripercorre la storia di un paese in cerca di pace, dove l’amicizia e l’amore sembrano ancora l’unica salvezza.

Recensione:

Nel suo secondo libro, Hosseini supera di gran lunga la bravura del primo: il ritmo narrativo scorre con i tempi giusti, la carica emotiva è densa e i dettagli sono approfonditi nella giusta quantità. Tutto questo fa da cornice ai destini intrecciati delle due protagoniste, le quali nell’amore, verso un figlio, un marito, un genitore, trovano la disperazione, ma anche la forza di lottare in un deserto arido di speranze. La storia funge anche da documentario sulle vicende dell’Afghanistan degli ultimi 50 anni.

Il racconto inizia dagli anni in cui  per le strade di Kabul si potevano incontrare donne senza burqa, senza accompagno e con una certa istruzione. Poi rapidamente la guerra, la violenza e la brutalità dell’uomo trasformano la cultura in un’arma di dominio e omicidio. La vita non è vista più come un dono, ma come il possesso di qualcuno e ogni forma di espressione, sia essa una parola, una nota, un passo di danza, viene vista come un affronto al “padrone”.

Lo stile è scorrevole e non risulta eccessivamente elaborato,  molto facile da comprendere. Con eccellente maestria, l’autore riesce a sconvolgere il lettore e far assaporare l’amara condizione delle donne afghane.

“Non si possono contare le lune che brillano sui suoi tetti, ne i mille splendidi soli che si nascondono dietro i suoi muri.”

  • Recensione “Il Cacciatore di aquiloni” QUI.

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